
Acceptance and commitment therapy (ACT)
L’Acceptance and Commitment Therapy (ACT), tradotta in italiano come “Terapia legata all’accettazione e all’impegno” (Spagnulo, 2007), è un modello psicoterapeutico che punta allo sviluppo del benessere della persona. Le sue fondamenta trovano luogo a livello filosofico nel Contestualismo funzionale, che studia come ogni elemento funziona all´interno di contesti specifici considerando gli eventi psicologici come azioni continue dell’intero organismo che interagiscono con la storia del soggetto e il contesto attuale, il quale viene integrato dalla Relational Frame Theory (RFT), ovvero una teoria analitica del comportamento umano il cui focus verte su linguaggio e cognizione quali elementi relazionati al contesto, e che quindi si basa sulla capacità di correlare arbitrariamente gli eventi specifici tra loro e di modificarne le funzioni in base alle relazioni con gli altri (Hayes et al., 2006).
Tale approccio parte dal presupposto che è normale provare sofferenza psicologica in quanto essa fa parte di noi. Tuttavia, non essendo possibile eliminarla volontariamente, si insegnano nuove modalità per non incrementarla attraverso l’acquisizione di prospettive differenti. È fondamentale uscire dalla propria mente ed entrare nella propria vita.
Il concetto di felicità, secondo un’ottica sociale occidentale, è intriso di innumerevoli trappole verbali. Molte persone sono convinte che per essere felici sia necessario evitare i problemi e che per avere una vita migliore ci si debba sbarazzare dei sentimenti, ricordi e pensieri negativi. Queste credenze spingono il soggetto in un circolo vizioso che potrebbe comportare l’insorgenza di molteplici disturbi psicologici. L’ACT tenta quindi di ristabilire un corretto equilibrio tra cognizioni ed emozioni, definendo la felicità come un vero e proprio modo di vivere e di agire. Il focus è spostato sulle proprie azioni, per questo è importante affrontare gli eventi privati in modo distaccato. Si può vivere una vita felice pur avendo pensieri negativi.
A questo punto risulta inevitabile osservare come il tentativo di soppressione del pensiero induca un effetto paradosso portando ad un incremento di esso, per questo è necessaria l’accettazione come elemento di contrasto all’evitamento esperienziale. Si propone una flessibilità cognitiva, in quanto la rigidità psicologica è considerata causa di sofferenza umana e disadattamento, tramite l’abbattimento delle fusioni cognitive con la defusione. La mente ci propone pensieri ed immagini che spesso si con-fondono con gli eventi che rappresentano e il soggetto agisce “come se” i contenuti fossero eventi reali. Per questo si cerca di potenziare la defusione, la quale considera gli eventi privati per quello che sono, ovvero simboli, e insegna a distaccarsi da essi trasformando l’individuo in uno “scienziato curioso” che osserva la propria mente quasi come fosse un’entità estranea. Questo consente di spostare l’attenzione nel hic et nunc in contatto con il presente. Si deve essere consapevoli di essere consapevoli, quindi meta-consapevoli, scoprendo il sé come contesto e seguendo i propri valori tramite un’azione impegnata. Il fine ultimo dell’ACT è infatti quello di imparare a costruire azioni funzionali, in modo da essere responsabili e non vittime della propria vita (Hayes et al., 2013). In parole semplici un nuovo modo di affrontare gli eventi privati, pensieri ed emozioni, siano essi positivi o negativi, come parte integrante dell’ampio ventaglio dell’esperienza umana.
Tutto questo può essere semplicemente ritrovato nella definizione dell’acronimo ACT: accetta i tuoi pensieri e le tue emozioni e sii presente (Acceptance), connettiti con i tuoi valori (Commitment) e traducili in azioni efficaci (Therapy). Nella pratica questo approccio inserisce al suo interno pratiche Mindfulness attraverso le quali si impara a guardare il proprio dolore, invece che vedere il mondo attraverso di esso.
Sebbene i pareri siano contrastanti, l’ACT è stata collocata da Hofman e Asmundson (2008) all’interno della terza generazione “third wave” della terapia cognitiva e comportamentale, e i riscontri clinici sono equivalenti, e in alcuni casi superiori, rispetto ai tradizionali protocolli. La sua efficacia è stata dimostrata in disturbi come: depressione, ansia, fobia sociale, agorafobia, burnout, stress lavorativo-correlato, dolore cronico, psicosi e abuso di sostanze (Hayes et al., 2006). Risultati che lasciano ben sperare per prospettive future.
Dott. Davide Bertelloni
Related Posts
Meccanismi Neurobiologici delle pratiche Mindfulness
L’interesse delle moderne neuroscienze e del settore psicologico in merito alle...
Cos’è la meditazione Zen? Come si pratica e qual’è la sua efficacia
La pratica meditativa Zen viene chiamata Zazen, letteralmente “seduti...