
Come la plasticità cerebrale consente il recupero di lesioni del cervello e deficit cognitivi
Una delle proprietà più strabilianti del nostro cervello è la plasticità, ma cosa s’intende con questa parola? La plasticità cerebrale, o neuroplasticità, è la capacità del nostro cervello di cambiare per potersi adattare al mondo che ci circonda. Tali cambiamenti sono definiti sotto forma di risposte chimiche (interazioni neurotrasmettitore-recettore), elettriche (depressione o potenziamento a lungo termine) e molecolari (attivazione dei fattori di trascrizione della sintesi proteica), riorganizzazione delle connessioni entro e tra aree cerebrali e cambiamenti comportamentali. In particolare, si riscontrano quindi cambiamenti strutturali (come neurogenesi, arborizzazione dendritica, estensione dei processi massonici, sinaptogenesi e sfoltimento sinaptico) e funzionali (ovvero miglioramenti nel comportamento, nell’attività elettrica, nelle rappresentazioni senso motorie, nell’attività metabolica,…).
La plasticità cerebrale è un fenomeno che trova il suo picco massimo durante la fase embrionale e nel primo sviluppo dell’uomo, tuttavia è presente anche nell’adulto ed in età avanzata. Per fare un esempio, alcuni studi dimostrano che la neurogenesi, produzione di nuovi neuroni, è costante nel cervello anche in età adulta e negli anziani, così come la capacità del nostro cervello di riorganizzarsi in seguito a lesioni.
Per queste ragioni varie ricerche sulla plasticità strutturale in soggetti adulti impiegano la risonanza magnetica funzionale per misurare il decorso post-lesionale del paziente. Di nostro interesse è quindi il recupero funzionale del deficit sorto in seguito a lesioni cerebrali. Il recupero parziale delle capacità di interagire con l’ambiente può avvenire attraverso la riorganizzazione di aree non colpite dalla lesione, che può verificarsi in vari modi. Attraverso la riorganizzazione di aree rimaste indenni o quelle perilesionali. Oppure è possibile assistere all’attivazione di aree omologhe dell’emisfero integro, in pazienti con lesioni corticali unilaterali, permettendo quindi un recupero delle funzioni perse.
Per fare un esempio, in soggetti afasici (dove la lesione è solitamente presente in regioni adibite al linguaggio e quindi nell’emisfero sinistro) si osserva un reclutamento di aree omologhe dell’emisfero destro, anche se il recupero funzionale non è mai completo. Per questo motivo alcuni studiosi credono che in tali casi attivazioni dell’emisfero destro potrebbero essere responsabili dell’incompleto recupero, più che del miglioramento del linguaggio.
Allo stesso modo il recupero di attività motorie può avvenire anche attraverso il reclutamento di aree motorie ipsilaterali alla lesione e non solo controlaterali. Il movimento della mano paretica produce infatti attivazioni bilaterali in aree parietali superiori e prefrontali, non osservabili in soggetti neurologicamente indenni, che svolgono lo stesso compito motorio. Questo ci consente di osservare che se misure di prestazione sono correlate con attività metabolica di determinate aree cerebrali, allora è probabile che queste aree siano coinvolte nel recupero funzionale.
In conclusione, è possibile affermare che lesioni cerebrali, più o meno gravi, sono alla base della perdita di funzioni specifiche. Tuttavia, la plasticità cerebrale consente, tramite molteplici strategie di riorganizzazione e adattamento, di adeguarsi all’ambiente circostante definendo una riacquisizione parziale o totale delle funzioni cerebrali danneggiate.
Bibliografia: Vallar, G., & Papagno, C. (2018). Manuale di neuropsicologia. Clinica ed elementi di riabilitazione. Il Mulino.
Dott. Davide Bertelloni
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