
La diagnosi da DSM comporta spersonalizzazione nei pazienti psichiatrici
I termini sanità, follia, malattia mentale e schizofrenia, spesso hanno dati contraddittori su affidabilità, utilità, significato. In effetti i concetti di normalità e anormalità cambiano in base all’assetto culturale. Le diagnosi psichiatriche, basate sul DSM-5, offrono un inquadramento sintomatologico ma non aiutano nella cura. Esse rivelano poco del soggetto, tuttavia l’ambiente in cui esso è inserito ha un ruolo importantissimo nell’inquadramento del problema.
Un famoso studio ha voluto indagare se soggetti sani, inseriti in ambiente ospedaliero con diagnosi psichiatrica, verranno considerati “malati” dal personale sanitario. A questo scopo sono state arruolate 8 persone sane (3 donne e 5 uomini, 1 studente, 3 psicologi, 1 pediatra, 1 psichiatra, 1 casalinga, 1 scrittore). Gli ospedali scelti erano variegati, alcuni privati altri pubblici, alcuni vecchi altri nuovi, con personale efficiente o insufficiente.
Ciascuno di essi si è presentato all’accettazione dicendo di sentire delle voci (allucinazioni uditive), le quali parevano nascere da una mancanza di senso nella propria vita. Le storie che i soggetti raccontavano erano le proprie, perciò la diagnosi non poteva indicare una patologia grave. A quel punto seguiva il ricovero, e dal momento in cui i pazienti venivano portati in reparto potevano comportarsi in modo normale. Durante la loro permanenza potevano prendere appunti su ciò che accadeva, inoltre dovevano convincere il personale di essere guariti e quindi di poter tornare a casa.
Gli “pseudopazienti” non furono mai scoperti. Ammessi con diagnosi di schizofrenia, sono stati dimessi con diagnosi di schizofrenia in remissione. Questo ci dimostra come l’etichetta diagnostica, una volta che è stata assegnata, risulta molto complicato essere eliminata. E il confine tra normale e disturbo mentale pare decisamente molto sottile e talvolta aleatorio.
I medici, in alcuni contesti, operano con un forte pregiudizio. Sono più propensi a definire malata una persona sana (falso positivo), che sana una persona malata (falso negativo) (errore tipo 2). Meglio fare diagnosi piuttosto che non farla. Ma questo non tiene conto dell’inevitabile riscontro che le diagnosi psichiatriche hanno a livello personale, sociale e legale.
A questo va ovviamente aggiunta la condizione di paziente ospedalizzato, che nel lungo tempo comporta impotenza appresa e spersonalizzazione. Questi soggetti si sentono umiliati e derisi, non considerati, giudicati ed inferiori. Spesso sono privati dei loro diritti legali, non hanno privacy e vengono considerati come invisibili. Il tutto è aggravato e perpetuato dall’atteggiamento di ambivalenza che spesso il personale sanitario tiene verso i malati di mente. Così come l’eccessivo uso di farmaci e la mancanza di sostegno psicologico.
Per questi motivi ai fini della presa in carico di un paziente, l’etichetta diagnostica risulta utile solo per la comunicazione tra medici e personale, ma inutile per la cura. È proprio il concetto di cura che dovrebbe essere amplificato e valutato in modo ampio, con una presa in carico del paziente che prenda in considerazione non solo il suo disturbo ma anche la sua condizione di “persona”.
Bibliografia:
Watzlawick, P. (1992). La realta’inventata: contributi al costruttivismo. Feltrinelli.
Dott. Davide Bertelloni
Related Posts
Misurazione oggettiva della coscienza: strumenti e metodi per una diagnosi efficace
Misurare la coscienza non è cosa semplice in quanto la sua definizione non è...
Come la plasticità cerebrale consente il recupero di lesioni del cervello e deficit cognitivi
Una delle proprietà più strabilianti del nostro cervello è la plasticità, ma...